INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/06557 presentata da BOATO MARCO (FEDERAZIONE DEI VERDI) in data 19921021

http://dati.camera.it/ocd/aic.rdf/aic4_06557_11 an entity of type: aic

Al Ministro di grazia e giustizia. - Per sapere - premesso che: la sera del 20 gennaio 1976 a Padova, verso le ore 18, in una villetta di via Faggin n. 27 veniva uccisa la studentessa universitaria Margherita Magello, di anni 25. Le indagini stabilirono che l'omicidio era stato compiuto con un'arma da taglio e punta (coltello o pugnale) che era stato vibrato 60 volte nel corpo nudo della vittima. Gli accertamenti stabilirono altresi' che l'aggressione era iniziata e si era conclusa in uno stanzino guardaroba, molto piccolo (metri 1,50 per 0,80) e che la vittima si era difesa disperatamente, riuscendo ad afferrare la lama del coltello (che le squarcio' il palmo e i polpastrelli della mano destra) prima di cadere a terra e soccombere sotto i colpi dello sconosciuto aggressore. Del terribile delitto venne accusato un giovane studente liceale, Massimo Carlotto, che si rera recato spontaneamente ai Carabinieri come teste per riferire che passando per via Faggin aveva sentito grida d'aiuto provenire dalla palazzina n. 27. Il ragazzo era rimasto sorpreso e anche preoccupato, dato che nello stesso stabile, al secondo piano, abitava la famiglia della sorella. Ripetendosi le grida di aiuto, era entrato in giardino e poi in casa attraverso la porta semiaperta, aveva cercato nei locali a piano terra che avevano la luce accesa, e poi era salito all'ammezzato (dove pure le luci erano accese) e aveva trovato il corpo di una donna nuda, coperto di ferite e sangue, steso a terra nello sgabuzzino. Impietrito dalla sorpresa aveva abbozzato un tentativo di soccorso, chinandosi verso la donna: poi, preso dal panico, era fuggito precipitosamente. Cercata inutilmente le propria fidanzata, aveva raccontato il fatto a due suoi amici; con uno di essi si era recato poi da un avvocato per aver consiglio, e si era poi presentato ai Carabinieri per riferire quanto aveva visto. I Carabinieri, dopo aver riscontrato che gli abiti di Massimo Carlotto presentavano alcune tracce (sia pure ed in minima quantita') che sembravano di sangue, che anche i guanti apparivano macchiati e recavano inoltre alcuni tagli (specie il guanto destro), lo sospettarono di essere il colpevole. Massimo Carlotto fu trattenuto, fermato e messo a disposizione del magistrato. Inizia cosi' una terribile ed infinita storia umana e giudiziaria, nella quale i diritti elementari della persona dell'imputato - riconosciuti e garantiti nella nostra Carta costituzionale e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva nel nostro ordinamento con legge n. 848 del 4 agosto 1955 - sono stati reiteratamente e gravemente violati; conclusa l'istruttoria sommaria e formale, Carlotto viene rinviato a giudizio avanti la Corte d'Assise di Padova. Questa, con sentenza del 5 maggio 1978, lo assolve con insufficienza di prove. La carcerazione preventiva era durata due anni, tre mesi e quindici giorni: certamente troppi alla luce dell'articolo 5, comma 3 della CEDU, secondo cui "ogni persona arrestata o detenuta... ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere posta in liberta' durante l'istruttoria". In relazione a tale norma la Corte europea ha affermato che "la carcerazione preventiva si evidenzia come misura di durata strettamente limitata, poiche' la sua ragione d'essere risiede nella necessita' della fase istruttoria, che va condotta con rapidita'" (25 ottobre 1989 - Bezicheri contro Repubblica Italiana). E ancora: "il prevedere che la detenzione obbligatoria degli accusati non possa essere mantenuta oltre i limiti ragionevoli ha come corrispondente l'obbligo degli Stati di attivarsi affinche' cio' sia reso possibile: la Corte infatti definisce lo stato di detenzione preventiva come il sacrificio che, secondo le circostanze del caso puo' essere imposto nei limiti del ragionevole ad una persona presunta innocente per le esigenze del giudizio" (27 giugno 1968 - Wenhoff contro Repubblica Federale Tedesca); non c'e' dubbio quindi che la carcerazione preventiva subi'ta dal Carlotto non si e' certo mantenuta nei limiti del ragionevole; ma sempre a proposito di detta carcerazione non si puo' tacere il fatto che, con provvedimento senz'altro illegittimo a parere dell'interrogante il 19 settembre 1977 Carlotto veniva inviato nel carcere speciale di Cuneo, carcere di massima sicurezza destinato a pericolosi terroristi. Con decreto ministeriale 4 maggio 1977 erano stati conferiti al Comando dei Carabinieri i piu' ampi poteri in ordine al controllo esterno degli istituti penitenziari. In realta', in base ad un'interpretazione da molti ritenuta arbitraria, detti controlli vennero estesi anche all'organizzazione interna degli istituti. Cio' consenti' l'istituzione di cinque carceri speciali di massima sicurezza, tra cui quello di Cuneo. Il provvedimento nei confronti di Carlotto non trova invero alcuna giustificazione. Egli, infatti, simpatizzante di Lotta continua (e, si ricordi, poco piu' che adolescente), aveva sempre svolto la sua attivita' politica pubblicamente e, ben lungi da simpatie per gruppi terroristici, non aveva mai commesso atti di violenza. Inoltre, il reato di cui era accusato non aveva certo natura politica; in sostanza, un provvedimento amministrativo emanato dal comando dei carabinieri che lo indicava come pericoloso terrorista (provvedimento contro il quale non era ammesso alcun ricorso) veniva ad incidere profondamente sulla persona di Carlotto e sui suoi diritti di imputato detenuto. In tal modo e' stato certamente violato non solo l'articolo 6, comma 2 CEDU ("ogni persona accusata di un reato e' presunta innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata"), ma anche l'articolo 3 della stessa Convenzione, che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Si osserva al riguardo che all'interno delle carceri di massima sicurezza trovava l'applicazione l'articolo 90 dell'Ordinamento penitenziario (legge n. 345 del 1975): "Quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza, il Ministro di grazia e giustizia ha facolta' di sospendere, in tutto o in parte, l'applicazione in uno o piu' stabilimenti penitenziari, per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza". Questa norma e' stata poi abrogata dalla legge Gozzini (legge n. 663 del 1986). Cosa volesse dire l'applicazione dell'articolo 90 e quale fosse il trattamento riservato ai detenuti delle carceri speciali, e' ampiamente documentato nelle numerose interrogazioni parlamen-tari e negli appelli provenienti da piu' parti che ne chiedevano l'abolizione; Massimo Carlotto, all'epoca appena ventenne, incensurato, in attesa di giudizio (e, quindi presunto innocente) rimase per cinque lunghi mesi nel carcere di Cuneo. A ragione sembra ipotizzabile la violazione del sopra citato articolo 3 della norma "dipende da un insieme di dati, ed in special modo dalla durata del trattamento e dei suoi effetti fisici e mentali, come pure talvolta dal sesso, dall'eta' e dallo stato di salute della vittima" (18 gennaio 1978 - Irlanda contro Regno Unito); la nozione di trattamento disumano si riferisce ad un trattamento che causa vive sofferenze fisiche e morali, mentre e' ravvisabile un trattamento degradante in quello che suscita nelle persone sentimenti di paura, di angoscia e di inferiorita'. La Corte europea ha chiarito che anche "il semplice pericolo che tali atti e misure (idonei a causare le sofferenze di cui sopra) siano eseguiti, a condizione che esso sia reale e immediato" da' luogo alla violazione del citato articolo 3 (25 maggio 1982 - Campbell e Cosans contro Regno Unito); in relazione alla detenzione nel carcere di Cuneo e' inoltre ravvisabile anche la violazione dell'articolo 5 comma 4 della Convenzione, poiche' contro il provvedimento di trasferimento non era possibile alcun ricorso; le violazioni finora rilevate appartengono solo al preludio della lunga storia processuale di Massimo Carlotto. Il 19 dicembre 1979 la Corte di assise d'appello di Venezia, capovolgendo il giudizio di prime cure, lo condanna a 18 anni di reclusione, sentenza confermata dalla Corte di cassazione il 19 novembre 1982. Erano trascorsi quasi sette anni da quando Carlotto era stato arrestato con l'accusa di omicidio e l'istruttoria aveva avuto inizio: un periodo certo irragionevolmente lungo, tenendo conto del fatto che si trattava di un processo con un unico imputato, e senz'altro in contrasto con l'articolo 6, comma primo della CEDU; cio' che e' ancora piu' grave, e' che nonostante il processo si fosse protratto cosi' a lungo, vi erano numerose prove che i giudici non avevano mai esaminato. Essendo convinto che il giudizio di condanna fosse ingiusto e fondato su gravissime lacune istruttorie, travisamenti di fatto e contraddizioni logiche, Massimo Carlotto incarico' dunque i propri legali di avviare le indagini necessarie per giungere ad un giudizio di revisione. Gli esiti di dette indagini furono sorprendenti, tanto da condurre all'accoglimento dell'istanza di revisione della sentenza di condanna. In sostanza, i nuovi elementi, non considerati in precedenza, che secondo la Cassazione imponevano la riapertura del procedimento, erano in primo luogo un'impronta di scarpa rinvenuta sul piede destro della vittima, che non corrispondeva a quelle indossate dall'imputato. Il secondo elemento probatorio non considerato era la mancanza di macchie ematiche sia all'esterno che all'interno dei guanti indossati dal Carlotto. Il terzo nuovo elemento di prova indicato dalla Cassazione era il giudizio di compatibilita' tra le modalita' di realizzazione del delitto (colluttazione violenta con la vittima) e lo stato degli abiti del Carlotto, pressoche' privi di macchie di sangue; per di piu', la Corte di Cassazione ha dovuto prendere atto che alcuni elementi di prova, probabilmente decisivi per l'accertamento della verita', non esistevano piu': "... taluni dei "nuovi elementi" sui quali la domanda di revisione era destinata a fondarsi, pur essendo incontestabile il carattere della loro "novita'", non sono piu' suscettibili di utilizzazione perche' lo Stato non e' stato in grado di assicurarne la conservazione. Ci si intende riferire alle formazioni pilifere repertate in occasione della ricognizione del cadavere della vittima ed al fustino di detersivo rinvenuto in uno stanzino attiguo ai locali ove venne consumato il delitto, fustino su cui era stata riscontrata la presenza di macchie di sangue appartenenti a persona di gruppo B (mentre sia l'imputato che la vittima avevano rispettivamente il gruppo A e 0", pagina 9 della sentenza in oggetto); in definitiva, Carlotto non ha avuto la possibilita' di difendersi perche' lo Stato non e' stato in grado di conservare i reperti oggetto di prova!; la violazione qui ravvisabile non riguarda solo il diritto di ogni accusato alle "facilitazioni necessarie per preparare la sua difesa", previsto dall'articolo 6 comma terzo lettera B) CEDU, ma investe in modo complessivo la nozione stessa di "processo equo". Il diritto ad un equo processo domina tutto l'articolo 6 a tal punto che i diritti "particolari" in esso enunciati sono tutti considerati come appendici e sviluppi del diritto generale alla "equita'" delle procedure giudiziarie. Sostanzialmente l'equo processo tende a garantire il rispetto della dignita' giuridica della persona umana attraverso le specifiche garanzie previste nella disposizione in aggetto che tutte concorrono a realizzare una buona amministrazione della giustizia; quindi compito della Corte e' "verificare che il procedimento, nel suo insieme, compreso il modo di presentazione dei mezzi di prova, sia stato equo... Le garanzie del paragrafo 3 dell'articolo 6 costituiscono infatti un singolo aspetto della piu' ampia nozione di equo processo consacrata dal paragrafo 1" (20.11.1989, Kotovski contro Paesi Bassi); ma nel caso Carlotto vi e' stata addirittura l'impossibilita' di presentare dei mezzi di prova, e cio' per motivi addebitabili solo ed esclusivamente allo Stato. Il giudizio di revisione si svolse quindi, necessariamente, "amputato" di alcuni elementi di prova che Massimo Carlotto aveva invocato a sua difesa; il 20.10.1988 - quattro giorni prima dell'entrata in vigore del nuovo codic q quattro giorni prima dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale - la Corte d'Assise d'Appello di Venezia iniziava il giudizio che doveva condurre alla revisione della sentenza di condanna. A conclusione di quattordici mesi di dibattimento, riunitasi in Camera di consiglio per la decisione definitiva, la Corte giunse ad un giudizio finale di insuperabile insufficienza probatoria, ritenendo provata la provenienza della impronta da una scarpa diversa da quella dell'imputato e delle altre cinque che ebbero accesso al corpo della vittima, ma non pienamente provati gli altri elementi che condussero alla riapertura del processo; con un clamoroso errore di interpretazione delle norme transitorie indicate dagli articoli 245 e 254 del nuovo c.p.p., la Corte d'Assise d'Appello con ordinanza del 22.12.1990 rinviava gli atti alla Corte Costituzionale affinche' questa deliberasse sulla sollevata questione di legittimita' dell'articolo 566 comma 2 c.p.p. del 1930, nella parte in cui esclude che, laddove si verifichi la situazione di insufficienza probatoria, possa farsi luogo alla pronunzia di assoluzione, dovendosi invece confermare le sentenza di condanna; la Corte Costituzionale, con sentenza 5.7.1991, dichiarava non fondata la questione di legittimita' costituzionale. Infatti, alla luce delle sopra citate disposizioni transitorie di cui agli articoli 245 e 254 del codice di procedura penale, le sentenze di proscioglimento possono ormai essere pronunziate solo con le formule previste dal nuovo codice. Massimo Carlotto, quindi, doveva essere assolto sin dal 22 dicembre 1990; cessata la causa di sospensione del procedimento di revisione per l'intervenuta sentenza della Corte costituzionale, il processo di revisione a carico di Massimo Carlotto e' ripreso con un nuovo collegio, diverso per composizione nella persona del Presidente e dei giudici popolari effettivi e supplenti (escluso il consigliere relatore che e' rimasto immutato); le udienze si sono svolte con la rinnovazione del dibattimento agli effetti delle acquisizioni processuali concernenti le attivita' svolte nella fase antecedente la sospensione del giudizio e mediante la lettura degli atti. All'esito del dibattimento veniva emessa sentenza 27 marzo 1992, che confermava la sentenza di condanna pronunciata il 19 dicembre 1979. Clamorosamente, la Corte d'assise d'appello si discostava dal giudizio di insufficienza di prove gia' esplicitamente formulato il 22 dicembre 1990 dal medesimo organo giudicante nel corso del medesimo grado di giudizio (sia pure con un collegio di differente composizione). Se il primo processo, nei diversi gradi del giudizio, era durato ben sette anni, il processo di revisione non e' stato certo di breve durata. Trascorrono infatti quasi quattro anni dal momento in cui la difesa propone l'istanza di revisione, alla sentenza della Corte d'assise d'appello. Sono trascorsi oltre sedici anni da quel lontano pomeriggio di gennaio in cui Carlotto, entrato nella caserma dei carabinieri come testimone volontario, ne usciva in manette con l'accusa di essere lui l'autore del delitto. Un tempo enorme, irragionevole per giudicare un uomo a parere degli interroganti. Certamente non si puo' ritenere, a parere degli interroganti, il Carlotto responsabile di questo per aver prolungato il procedimento con la presentazione di istanze. Infatti, il processo di revisione non si sarebbe mai reso necessario se all'epoca dei fatti le indagini fossero state piu' approfondite. Egualmente non sarebbe stato necessario, a parere degli interroganti, l'intervento della Corte costituzionale, se i giudici avessero correttamente interpretato le norme applicabili; a tale proposito la Corte europea, di fronte all'obiezione del Governo chiamato in causa, secondo cui nessuno Stato puo' garantire l'infallibilita' dei giudici, e quindi un errore di diritto puo' provocare un ricorso e prolungare la durata del procedimento, osserva che "un errore imputabile ad un Tribunale, che porta al prolungamento di un processo a causa della necessita' di esercitare un ricorso, puo', se combinato con altri fattori, essere preso in considerazione alla luce dell'articolo 6, paragrafo 1" (Bock contro Repubblica federale tedesca - 29 marzo 1989); quel che e' piu' grave a parere degli interroganti e' che Massimo Carlotto, dopo la fase interlocutoria avanti la Corte costituzionale, e' stato giudicato e poi condannato da giudici diversi da quelli che, rimettendo gli atti avanti la Corte costituzionale, lo avevano ritenuto innocente; non si puo' non ravvisare in cio' una violazione del diritto ad un equo processo, inteso nel senso piu' ampio, come diritto al rispetto della dignita' giuridica della persona umana. L'equo processo, a cui si riferisce l'articolo 6 CEDU, non si risolve nell'osservanza dei princi'pi ivi enunciati, ma abbraccia ogni situazione che in qualche modo possa ledere quel diritto alla dignita' giuridica di cui si e' detto. E' ravvisabile tuttavia anche la specifica violazione dell'articolo 6, primo comma, laddove afferma che "ogni persona ha diritto ad un'equa e pubblica udienza... davanti ad un Tribunale indipendente e imparziale costituito per legge". Ovviamente la nozione di Tribunale indipendente e imparziale va intesa in termini molto ampi, comprendendo anche la percezione che puo' averne l'interessato. Infatti ad avviso della Corte europea "assume importanza il modo in cui l'organo appare alla persona sottoposta a giudizio, poiche' bisogna comunque che questa abbia fiducia e convinzione di essere giudicata da un organo al di sopra delle parti" (Campbell e Fell contro Regno Unito - 24 maggio 1984). La Corte precisa inoltre che "la condizione essenziale per valutare l'indipendenza del Tribunale e' pero' costituita dall'inamovibilita' dei giudici durante il loro mandato" (idem). Ed e' alla luce di questo principio che va letto l'articolo 7 legge n. 287 del 1951 (modificato dall'articolo 33 del decreto del Presidente della Repubblica n. 449 del 1988) a norma del quale nei processi in Corte d'assise e in Corte d'assise d'appello "i dibattimenti vengono conclusi dallo stesso collegio anche dopo la scadenza della sessione nel corso della quale sono iniziati". Non c'e' dubbio quindi che l'aver modificato i componenti il collegio giudicante, costituisce una palese violazione della Convenzione. Vi e' ancora un aspetto, nella vicenda processuale di Massimo Carlotto, che assume rilevanza sotto il profilo della violazione dei diritti umani: si tratta delle sue condizioni di salute. Gia' nel 1978, durante la carcerazione preventiva, Carlotto aveva accusato i primi disturbi che lo avevano costretto ad un ricovero ospedaliero. Tornato in carcere, nel febbraio 1985, in seguito alla condanna, vede le sue condizioni aggravarsi sempre piu', tanto e' vero che il 10 novembre 1987 il Tribunale di Sorveglianza di Venezia dispone il differimento della pena per gravi motivi di salute per un periodo di otto mesi, poi prorogato nel luglio 1988. Ottenuta la revisione del processo ed essendo prossima la scadenza del termine di differimento, Carlotto chiede alla Corte di Cassazione di decidere sul suo status libertatis. A questo punto ha inizio quello che si potrebbe definire un "passeggio di competenze" da un giudice all'altro. La Cassazione infatti si dichiara incompetente a decidere. Egualmente il Tribunale di Sorveglianza, a cui viene richiesto un ulteriore differimento, dichiara la propria incompetenza e invia gli atti alla Corte d'Appello di Venezia. Quest'ultima, nel dichiararsi incompetente, rileva il conflitto e invia gli atti alla Corte di Cassazione che individuera' nel Tribunale di Sorveglianza il giudice competente. Non puo' non ravvisarsi in questo iter tortuoso e tormentato la violazione dell'articolo 3 CEDU. Massimo Carlotto, le cui condizioni di salute erano incompatibili con la detenzione, ogni giorno rischiava di tornare in carcere, poiche' nessun giudice voleva decidere nel suo status libertatis. Non c'e' dubbio che il suo ritorno in carcere sarebbe stato in contrasto con il citato articolo 3 ma, come si e' gia' detto, e' sufficientemente il "pericolo del trattamento inumano" perche' sussista la violazione. Inoltre, dato il suo stato di salute, i reiterati rifiuti dei giudici a decidere sull'istanza proposta, hanno provocato nel Carlotto una sofferenza psichica e uno stato di angoscia tali da aggravarne le condizioni fisiche. Quindi anche in tal senso vi e' stata una violazione dell'articolo 3; vale la pena di sottolineare, ancora una volta, l'immediata operativita', in Italia, della Convenzione, come ribadito dalle Sezioni unite penali della Cassazione, con sentenza n. 15 del 23 novembre 1988; le gravi questioni indicate prescindono, come e' evidente, dalla innocenza o dalla colpevolezza del Carlotto, e riguardano invece princi'pi generali che toccano tutti e ciascuno -: 1) quale sia l'opinione del ministro di grazia e giustizia in merito alle violazioni della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata e resa esecutiva dall'Italia con legge n. 848 del 4 agosto 1955, evidenziate nel caso di specie; 2) quali provvedimenti il ministro intenda adottare al fine di evitare per il futuro che possano nuovamente verificarsi analoghe violazioni dei diritti umani tutelati dalla Convenzione, e quali misure si intendano altresi' adottare al fine di riparare in quanto possibile alle lesioni gia' verificatesi; 3) cosa intenda fare il ministro per garantire la conservazione dei reperti giudiziari, posto che gia' nel 1988, il Governo stesso si era impegnato a presentare un disegno di legge in materia; 4) se il Governo intenda assumere tempestivamente le iniziative di propria competenza per giungere a chiarire, al di la' di ogni possibile dubbio, che nelle Corti di Assise di Appello i dibattimenti (anche di rinvio) devono essere conclusi (cioe' definiti con sentenza) dal medesimo collegio di fronte a cui sono iniziati, e cio' anche nei casi di sospensione necessaria per il giudizio di legittimita' costituzionale; 5) quali provvedimenti di competenza intende adottare il Governo al fine di escludere, in ossequio al principio costituzionale del carattere rieducativo della pena, la detenzione di soggetti le cui condizioni di salute siano assolutamente incompatibili con il regime carcerario. (4-06557)
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19921021- 
INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/06557 presentata da BOATO MARCO (FEDERAZIONE DEI VERDI) in data 19921021 
INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 
IMPOSIMATO FERDINANDO (PARTITO DEMOCRATICO DELLA SINISTRA) 
ABBRUZZESE SALVATORE (PARTITO SOCIALISTA ITALIANO) 
APUZZO STEFANO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
BERTEZZOLO PAOLO (MOVIMENTO DEMOCRATICO RETE) 
BETTIN GIANFRANCO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
BIONDI ALFREDO (PARTITO LIBERALE ITALIANO) 
CICCIOMESSERE ROBERTO (FEDER. EUROPEO PR) 
CRESCO ANGELO (PARTITO SOCIALISTA ITALIANO) 
CRIPPA FEDERICO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
DE BENETTI LINO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
DORIGO MARTINO (RIFONDAZIONE COMUNISTA) 
FOLENA PIETRO (PARTITO DEMOCRATICO DELLA SINISTRA) 
GIULIARI FRANCESCO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
LANDI BRUNO (PARTITO SOCIALISTA ITALIANO) 
LECCESE VITO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
LONGO FRANCO (PARTITO DEMOCRATICO DELLA SINISTRA) 
MATTIOLI GIANNI FRANCESCO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
PAISSAN MAURO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
PALERMO CARLO (MOVIMENTO DEMOCRATICO RETE) 
PANNELLA MARCO (FEDER. EUROPEO PR) 
PECORARO SCANIO ALFONSO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
PIERONI MAURIZIO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
PIRO FRANCO (PARTITO SOCIALISTA ITALIANO) 
PISCITELLO CALOGERO (MOVIMENTO DEMOCRATICO RETE) 
PRATESI FULCO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
DI PRISCO ELISABETTA (PARTITO DEMOCRATICO DELLA SINISTRA) 
RAPAGNA' PIO (FEDER. EUROPEO PR) 
RONCHI EDOARDO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
RUSSO SPENA GIOVANNI (RIFONDAZIONE COMUNISTA) 
RUTELLI FRANCESCO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
SCALIA MASSIMO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
TARADASH MARCO (FEDER. EUROPEO PR) 
TURRONI SAURO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 
VENDOLA NICOLA (RIFONDAZIONE COMUNISTA) 
VITO ELIO (FEDER. EUROPEO PR) 
DE PAOLI PAOLO (PARTITO SOCIALISTA DEMOCRATICO ITALIANO) 
MASTRANTUONO RAFFAELE (PARTITO SOCIALISTA ITALIANO) 
PELLICANI GIOVANNI (PARTITO DEMOCRATICO DELLA SINISTRA) 
RAFFAELLI MARIO (PARTITO SOCIALISTA ITALIANO) 
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4/06557 
BOATO MARCO (FEDERAZIONE DEI VERDI) 

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